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martedì 22 novembre 2011

Egitto, ancora sangue in piazza Tahrir



lopinione di VITTORIO EMANUELE PARSI da www.lastampa.it

Mentre gli scontri tra dimostranti e forze di sicurezza in piazza Tahrir non accennano a placarsi, appare ormai irreversibile il ribaltamento del ruolo dell’esercito agli occhi di una parte crescente dell’opinione pubblica egiziana. I militari, che fino a poco tempo fa erano salutati come i garanti della fuoriuscita dal regime di Mubarak, sono oggi considerati il principale ostacolo alla transizione verso la democrazia. E la cattiva notizia è che la percezione dei manifestanti è corretta. Oggi l'Egitto è un regime militare in cui il capo del Consiglio supremo delle forze armate, Hussein Tantawi, riunisce nelle sue mani i medesimi poteri di Hosni Mubarak, pur se in una fase ben più caotica di quella in cui il suo predecessore si era trovato ordinariamente. Per molti aspetti è stato stupefacente come l'esercito fosse fin qui riuscito a mantenere l'incredibile posizionamento di paladino del cambiamento, nonostante l’acritico sostegno garantito a Nasser, Sadat e Mubarak in quasi sessant’anni di associazione al potere. Perché un fatto è evidente: cambiano i leader, cambia l'allineamento internazionale del Paese, ma quello che resta costante è il ruolo delle forze armate, vere detentrici, più che semplice sostegno, del potere effettivo.

Costringendo alle dimissioni il rais, lo scorso 11 febbraio, dopo aver tenuto una posizione defilata rispetto ai tentativi di schiacciare la rivolta, l'esercito era riuscito a far dimenticare tutto ciò, a metterlo sullo sfondo, complice la consapevolezza di tutti - dai soggetti politici ai semplici cittadini - che far chiarezza sulle sue reali intenzioni avrebbe potuto essere troppo rischioso, forse fatale, per gli stessi esiti della rivoluzione. Nei nove mesi trascorsi è iniziata una partita a scacchi in cui i militari hanno via via palesato le proprie intenzioni, riassumibili nella volontà di mantenere potere privilegi acquisiti in mezzo secolo. Allo stesso tempo però, l'insofferenza dell’opinione pubblica è cresciuta a mano a mano che l'avvicinarsi della scadenza elettorale consumava il tempo a disposizione per eventuali compromessi e rischiava di svuotare la rilevanza del primo libero pronunciamento elettorale nella storia egiziana. È stato questo a rendere lo scontro pressoché inevitabile. Ora è molto difficile che, dopo la strage di copti di un paio di mesi fa e il massacro dei giorni scorsi, un qualche accettabile compromesso possa essere ristabilito. I militari o finiranno per essere spazzati via o dovranno gettare la maschera e proporsi non come gli interpreti della rivoluzione e della sovranità popolare, ma come i liquidatori dell’una e dell’altra.

Un brutto affare per tutti. Per gli egiziani innanzitutto e per tutto il mondo arabo che all’Egitto guarda anche in questa occasione. Ma un disastro anche per gli Usa, che si erano convinti a mollare Mubarak, tardivamente e dopo furibondi contrasti interni all'amministrazione Obama, proprio perché pensavano di poter contare sull’inedita carta di militari riformisti pronti a farsi garanti verso Washington di una transizione ordinata alla cui conclusione sarebbe nato un Egitto nuovo e diverso in tutto tranne che nel suo allineamento internazionale. Ora, al massimo, avremo uno dei due esiti ma molto difficilmente tutti e due: un Egitto come sempre governato dai militari e alleato degli Usa oppure un Paese in cui il ruolo politico dell’esercito è drasticamente ridotto ma non più alleato degli Stati Uniti. Il sogno di coniugare in una sola stagione politica il riformismo marziale di Mustafa Kemal Atatürk e l’islamismo moderato e democratico di Erdogan è morto prima ancora di nascere. E l'Egitto non appare destinato a diventare una "nuova Turchia".

Nel frattempo, dal Libano di Hezbollah, ormai alleato pressoché solitario della Siria nel mondo arabo, giunge la notizia dello smantellamento della rete spionistica con cui l'Agenzia era riuscita a infiltrare il movimento sciita, oltretutto, pare, scoperta anche grazie all’impiego delle sofisticate apparecchiature fornite da Langley al Mukabarat durante il precedente governo filo-occidentale. Si tratta di un colpo che rende ancora più evidente l'affanno americano nel Medio Oriente, nel Levante in particolare, dove la crisi siriana rischia di andare fuori controllo proprio mentre i tamburi di guerra tornano a risuonare tra Israele e l'Iran. Un segnale che Hezbollah manda anche all'opposizione siriana, nei cui confronti le frontiere libanesi torneranno a sigillassi, nella logica di quello scontro finale cui il regime di Assad sembra persino aspirare più che limitarsi a non temere

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