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mercoledì 3 settembre 2014

Camusso a Renzi: «Ora basta con gli slogan»

“Modello tedesco? Sarebbe ora di smetterla con gli slogan e di avviare un discorso ampio, che modifichi gli schemi che abbiamo utilizzato finora, perché il lavoro non può più aspettare”.
Susanna Camusso è appena tornata da un viaggio in Giappone, ed è sorpresa della piega che ha preso il dibattito italiano sull'occupazione. “Cosa vuol dire come la Germania? Se significa universalità delle tutele, salari dignitosi, partecipazione dei lavoratori alle scelte di impresa, professionalizzazione e valorizzazione del lavoro, innovazione, regole contrattuali, riconoscimento reciproco dei ruoli noi ci siamo, siamo pronti da subito a discuterne e a firmare. Se vuol dire lavoro povero e dequalificato - come i mini job - precarizzazione a vita, competizione sul lato dei costi non va bene, ci opporremo. E poi è davvero uno strano dibattito: come si potrebbe coniugare questa idea di lavoro povero e precario con il Jobs Act? La verità è che in questa discussione non si capisce dove si vuole andare, cosa si vuole veramente fare”. E alla fine, nel tourbillon di dichiarazioni, si va a parare sempre lì: l'articolo 18. “Che non è vero che riguarda 3 mila persone - dice il segretario - Questo è un modo di sminuire. Quell'articolo riguarda i diritti fondamentali dei cittadini, e dei lavoratori, diritti che non possono essere soppressi”.

Il premier indica il modello tedesco come modello vincente. Voi non siete d'accordo?
“La prima contraddizione è che il Jobs Act, che nelle prossime settimane sarà in Parlamento, da quando è stato presentato ha mutato più volte faccia e obiettivo. Quando poi si parla di modello tedesco, si lascia tutto nel vago e ci si chiede cosa si voglia veramente intendere. Di cosa si parla? Dei diritti di informazione e di codeterminazione? In quel modello i lavoratori hanno un potere fortissimo, sugli investimenti e sulle scelte aziendali. Si vuol dire che vanno introdotte ulteriori forme di precarietà, questa volta chiamandole mini jobs? Se è così, se si tratta di prendere solo il pezzo che scarica sul lavoro la competizione e i costi, allora meglio lasciar perdere, è un modello che abbiamo già provato e ha fallito. Quando si discute di modelli in astratto senza specificare alcunché, si rischia solo di parlare per slogan. Un modo di fare e di agire che all'Italia non serve. Questo è un Paese che ha legiferato molto sulle regole del lavoro. E' arrivato il momento di cambiare schema e di cominciare a pensare come creare il lavoro, elaborare un piano serio di investimenti, superare la precarietà, dare stabilità e fiducia alle famiglie”.

Vuol dire che il modello tedesco include altri aspetti?
“Certo. La Germania ha reagito alla crisi con investimenti in ricerca e innovazione, con un modello di istruzione che favorisce l'inserimento al lavoro. Ripeto: non si può prendere un pezzo, riadattarlo e metterlo a casaccio in un altro posto. Così facendo non si rende moderno un sistema, lo si fa solo più farraginoso.

Quel modello si è basato anche sulla moderazione salariale: voi concordate?
“Sì, la moderazione salariale c'è stata, ma faccio notare che era con aumenti contrattuali sempre maggiori dell'inflazione. Gli ultimi dati Istat sulle retribuzioni in Italia, indicano un impoverimento diffuso e costante del fattore lavoro. Questo si dimentica troppo spesso. E comunque mi piacerebbe affrontare una bella discussione sui meccanismi salariali, sugli aumenti di produttività, sugli investimenti”.

Come si affronteranno le decine di situazioni di crisi industriali nei prossimi mesi?
“Questa è la domanda da porci: quale modello di Paese vogliamo e come salviamo interi pezzi di manifattura. Per questo dico che bisogna cambiare schema e smetterla di partire sempre dagli stessi temi già affrontati mille volte in passato. Per di più senza successo”.

Eppure a quanto pare è l'Europa che pretende un intervento sul mercato del lavoro: senza quello niente flessibilità.
“Ecco, è appunto questo lo schema che vorrei superare. Quando i problemi si affrontano con le vecchie ideologie, sia l'Europa a chiederlo, o siano i conservatori nostrani, alla fine si arriva sempre allo stesso punto: a norme che rendono il lavoro più precario. Ma così non si risolve alcunché. Se davvero vogliamo parlare e stare modernamente in Europa, parliamo di tutele universali che in Europa ci sono e in Italia no”.

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