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mercoledì 13 luglio 2011

Seminario nazionale Cgil Fp autonomie locali – Roma, 23-24 giugno 2011


sintesi di P. Barrera
Il secondo compleanno della “legge Brunetta” - 4 marzo 2009, 4 marzo 2011 - è passato sotto silenzio. Non è un’osservazione banale. Da un lato perché il Ministro ci ha abituato a esternazioni frequenti e altisonanti, di solito per esaltare i suoi straordinari successi: perché ha taciuto in un anniversario così significativo? Dall’altro perché quel silenzio contraddice proprio uno dei cardini della riforma: il dovere di ogni amministrazione pubblica “di predisporre, in via preventiva, gli obiettivi che (ci) si pone per ciascun anno, e di rilevare, in via consuntiva, quanta parte degli obiettivi dell’anno precedente è stata effettivamente conseguita, assicurandone la pubblicità per i cittadini” .

Nulla da eccepire. Sacrosanto. Proprio per questo è doveroso “fare il tagliando” alla riforma, tracciare un primo bilancio. In oltre due anni, quali obiettivi sono stati conseguiti? Quali risultati hanno visto i cittadini? Il passaggio dalla retorica al “ciclo della responsabilità” deve valere per tutti: per ogni Sindaco, per ogni Presidente di Provincia o di Regione o Direttore generale di Asl, e per ogni Ministro. Le buone intenzioni si misurano con i fatti. Questa è la cultura della accountability, che giustamente viene predicata agli altri, e troppo spesso dimenticata in casa propria.

Personalmente – ovviamente queste riflessioni impegnano solo chi le fa, e non chi ha organizzato questo seminario – non mi sono mai schierato nelle opposte tifoserie che si contendevano il campo sulla riforma Brunetta. Ne ho colto fin dall’inizio difetti gravi, norme assurde o persino di dubbia legittimità costituzionale, ma non ho mai negato – simmetricamente – che in quell’impianto legislativo, comunque articolato e complesso – ci fossero idee buone, suggestioni da sviluppare, scommesse da giocare fino in fondo per conquistare un’amministrazione pubblica migliore, davvero al servizio dei cittadini. Né ho mai dimenticato – e non possiamo dimenticare – che molti enunciati della riforma riprendevano concetti e valori che avevamo costruito insieme, nel quindicennio precedente, con i contratti nazionali della fine degli anni ’90, con le innovazioni legislative di quel periodo, fino al memorandum sul lavoro pubblico del 2007.

Luci e ombre, bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: non mi pare utile dividerci su questo, né vorrei che si riaprisse oggi un dibattito forzato, come fu quello di cinque anni fa su quella che impropriamente veniva chiamata “legge Biagi”. Abrogare tutto o correggerne i difetti? Riformare la riforma, o azzerare tutto per ricominciare daccapo? Ad ogni modo, oggi questa legge c’è, le amministrazioni sono tenute ad applicarla, e tutti noi a fare i conti con i suoi precetti.

In una sede sindacale, è ovvio che il nervo più scoperto riguarda quella che già due anni fa definimmo la “rivincita della legge sul contratto” , cioè la dichiarata volontà di recuperare terreno per il potere unilaterale dell’amministrazione dinanzi al vero o presunto “straripamento” delle relazioni sindacali. La legge delega indicava l’obiettivo senza infingimenti: se infatti confermava il valore della “convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali” , si preoccupava poi soprattutto di mettere a punto “gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico rispettivamente riservati alla contrattazione collettiva e alla legge” . L’orizzonte, insomma, era quello di un confine più rigido e “presidiato” tra lo spazio del potere unilaterale e quello del patto contrattuale, con evidente sfavore per quest’ultimo.

Tuttavia non mi sembra utile partire da qui, dalla denuncia del terreno perduto. Nessuno ci capirebbe, anzi. Dobbiamo pur riflettere sul grande consenso che, almeno all’inizio, ha accompagnato la sguaiata campagna di Brunetta contro i dipendenti pubblici: soprattutto nel pieno di una grave crisi economica e sociale, i cittadini ne hanno le tasche piene di amministrazioni lente, inefficienti, spesso ingiuste. Per questo, non dobbiamo volgere lo sguardo all’indietro, per far tornare le lancette a prima di Brunetta. Era necessario riformare l’amministrazione pubblica? Certamente. E riformare anche regole e abitudini del lavoro pubblico, e delle stesse relazioni sindacali? Credo proprio di sì.

Ho trovato, a questo proposito, un ragionamento esemplare. “La riforma dell’amministrazione pubblica, per quanto attiene ai modelli di organizzazione, alla valutazione dei risultati e ai controlli – scriveva qualcuno quindici anni fa - è importante non meno (e forse più) della contrattualizzazione. Può sembrare una osservazione banale, ma l’esperienza del lavoro privato dimostra che solo se il vincolo degli obiettivi, dei risultati, e quindi dell’efficienza, si impone al datore di lavoro, la contrattazione collettiva si può dimostrare uno strumento essenziale di razionalizzazione e di adattamento flessibile dei rapporti di lavoro” . Non sono parole di Brunetta (o di un brunettiano..). Sono di Massimo D’Antona, su Quale Stato, la rivista della Funzione pubblica Cgil. E’ la sfida del valore, dell’efficienza, dei risultati, della trasparenza a creare le condizioni per una stagione forte di contrattazione.

Ho trovato un’altra frase di D’Antona, di straordinaria attualità, che può aiutarci nella riflessione. “Un’amministrazione che aspiri ad essere più decentrata, leggera e semplice, più trasparente sotto il profilo finanziario e più responsabile – scriveva nel ’97 - richiede che l’organizzazione del lavoro negli uffici pubblici acquisti corrispondenti caratteri di flessibilità normativa, decentramento delle responsabilità di gestione e trasparenza dei costi” .

Parto allora da qui. Dalla autonomia che Regioni, Province e Comuni hanno reclamato dinanzi alla iniziale impostazione centralista e statalista del “decreto Brunetta”, ed è stata alla fine riconosciuta in quel “patto” che fu siglato in Conferenza unificata proprio due anni fa, nel luglio 2009 . Le amministrazioni territoriali avrebbero avuto un anno abbondante di tempo per adeguare i propri ordinamenti ai principi essenziali sul c.d. “ciclo della performance”, ma la loro eventuale inerzia non sarebbe passata sotto silenzio. Per le amministrazioni che non avessero rispettato il termine del 31 dicembre 2010, sarebbero scattate due sanzioni pesanti: il divieto di incrementare le risorse decentrate, e l’immediata applicazione – senza la ragionata mediazione del regolamento locale – di tutti i precetti legislativi.

Diciamolo francamente, quel “patto” era forse discutibile sul piano teorico – può lo Stato imporre regole organizzative, sia pur con norme “flessibili”, alle amministrazioni territoriali? – e tuttavia era comprensibile. Non si capirebbe, altrimenti, la serena accettazione da parte di amministrazioni (e associazioni di amministrazioni) normalmente assai gelose della propria autonomia. E’ purtroppo vero – è la prima delle tante “code di paglia” di cui parleremo – che troppo spesso i precetti stabiliti dalle leggi e dai contratti nazionali di lavoro, a parole condivisi da tutti, sono rimasti lettera morta in molte realtà locali.

Per questo stupisce che il Ministro – il grande fustigatore, esternatore incontinente, sempre pronto alla dichiarazione ad effetto, in Tv o sui giornali – non abbia reagito con la prevedibile veemenza al dato incontrovertibile del modestissimo “tasso di adeguamento” degli ordinamenti territoriali al traguardo del 31 dicembre.

Eppure i dati sono evidenti. A marzo, solo la metà delle Regioni si era “adeguata” (bene o male, questo è un altro discorso). Nessun censimento affidabile su Comuni e Province. Una buona ricerca IPSOA , rivolta ai Comuni capoluogo, aveva ricevuto, sempre nel marzo scorso, solo il 51 % di risposte, e di queste, solo il 54 per cento positive. Insomma, se – com’è probabile – le mancate risposte erano sintomo di mancato adempimento – solo un Capoluogo su quattro, o poco più, aveva rispettato il termine.

Quali possono essere le ragioni? Certamente il 2010 è stato un anno complicato: anno elettorale per tutte le Regioni, e per molte amministrazioni locali, subito dopo “segnato” dalla manovra finanziaria estiva. E’ comprensibile che nell’agenda di molti amministratori la preoccupazione di far quadrare i conti dinanzi a nuovi tagli e vincoli quasi insopportabili abbia posto in secondo piano gli adempimenti della “riforma Brunetta”. Anzi, qualche amministrazione ha pensato che i termini fossero “saltati” a causa della manovra: giuridicamente era un’interpretazione del tutto infondata (il decreto legge 78/2010 ha inciso formalmente sul decreto 150 solo con una pessima norma relativa agli incarichi dirigenziali ), ma comprensibile. Qualche Regione – penso alla legge n.1/2011 della Regione Lazio – il rinvio di un anno l’ha persino formalizzato. Ma per gli altri, per tutti gli altri, tutti i termini restavano in campo. Solo – e non è poco – era molto più difficile rispettarli, con il blocco della contrattazione, il congelamento delle risorse per il trattamento accessorio, il confuso e contraddittorio blocco delle retribuzioni individuali.

Resta comunque il fatto: la grande maggioranza delle amministrazioni non ha rispettato il termine stabilito, e il Ministro non ha reagito con la consueta irruenza. Temo allora che ci sia qualcos’altro, oltre al “ritardo”. Forse, quella partita non interessa più, non è avvertita come una priorità, come un terreno su cui spendersi e impegnarsi. Leggo molti segnali in questa direzione.

A cominciare dalla intesa siglata dal Governo il 4 febbraio con Cisl, Uil e qualche altra organizzazione , con l’impegno – di incerta valenza giuridica ed efficacia pratica – di garantire la intangibilità delle retribuzioni individuali del 2010, e rinviare l’attuazione della parte più cruda (ma centrale) della riforma – la distribuzione selettiva di premi ed incentivi, in base al sistema di valutazione – alla (improbabile) disponibilità di risorse aggiuntive, reperite con economie di gestione (il c.d. “dividendo di efficienza”).

Sottolineo subito che quella intesa non può e non deve avere alcun valore per le autonomie territoriali. Anci, Upi e Conferenza delle Regioni non sono state neppure informate; i riferimenti normativi di quella intesa riguardano esplicitamente le sole amministrazioni statali (con un cenno specifico al mondo della scuola) ; anche i commentatori più favorevoli – io no sono tra quelli – hanno tutt’al più segnalato la necessità di una analoga intesa per gli altri comparti. Il Comitato di settore degli enti locali – Comuni, Province, Camere di commercio – ha garbatamente, ma nettamente, respinto al mittente la richiesta di adesione all’intesa : noi non c’entriamo, e non abbiamo alcuna ragione di aderire a quell’ipotesi. Cercherò di spiegare le ragioni di questa posizione. Ora mi sembra prioritario leggere il contesto, interpretare il clima in cui si è inserita quell’intesa.

Aveva già iniziato la CIVIT, tra la fine del 2010 e l’inizio del nuovo anno, con alcune sorprendenti deliberazioni, che di fatto stemperavano il vincolo di adempimento imposto alle amministrazioni locali . L’intesa che, demagogicamente e illusoriamente, promette di non toccare un euro (né “in su” né “in giù”) delle retribuzioni individuali del 2010, è stata subito seguita da alcune leggi regionali – citavamo il Lazio – che, a dispetto delle scadenze stabilite dal decreto 150, hanno sostanzialmente accolto la moratoria, e comunque rinviato tutto di un anno. Penso però anche al ritardo enorme con cui si sta procedendo alla definizione di metodologie di confronto tra le performance di amministrazioni omogenee, e allo scandaloso “sganciamento” delle amministrazioni più potenti – da ultimo, il Ministero dell’economia, con una norma nascosta nel Codice dell’amministrazione digitale – rispetto ai vincoli più ostici del “modello Brunetta”.

Tutto questo accade senza clamore, senza rimbrotti da parte del Ministro, che del resto accetta con signorile nonchalance la lentezza con cui le amministrazioni territoriali si “mettono in regola”.

Insomma, la parte più innovativa della riforma - difficile ma promettente, irta di trabocchetti, ma di evidenti potenzialità – segna il passo, perde di slancio, e nessuno se ne preoccupa.

Non registriamo, però, un analogo sereno distacco sul fronte di iniziativa per ridisegnare i confini delle relazioni sindacali.

Il 2010 era stato segnato da circolari tanto battagliere quando giuridicamente fragili (penso soprattutto alla circolare n.7/2010 ), da ripetute sconfitte dinanzi ai giudici del lavoro , e dalla tragicomica pantomima sulle RSU: congelate d’imperio, salvo sconfessione da parte del Consiglio di Stato , per poi riprendere lentamente il percorso delle elezioni, ma cercando di forzarne l’esito con la logica degli accordi separati. L’offensiva ha poi preso la strada di un decreto legislativo correttivo (portato in Consiglio dei ministri il 21 gennaio, sta per completare l’iter proprio in questi giorni ) – e di una ipotesi di accordo quadro sulle relazioni sindacali , presentato il 18 febbraio scorso, come esito “obbligato” dell’intesa del 4 febbraio. E nuove circolari , all’inizio dell’anno, hanno battuto sullo stesso tasto.

La contrattazione, ormai, è circoscritta entro confini rigorosi e severi: vincoli “in negativo” (materie escluse: l’organizzazione, le prerogative dei dirigenti), vincoli “in positivo” (materie in cui la contrattazione è ammessa solo negli spazi esplicitamente indicati dalla legge: vale, ad esempio, per la valutazione delle performance o per la responsabilità disciplinare dei dipendenti), rigidi controlli . All’estremo opposto, si configura l’esercizio del potere datoriale dei dirigenti, vincolato solo dal dovere di informare i sindacati. E in mezzo, tra la contrattazione decentrata integrativa e la gestione unilaterale del rapporto di lavoro, la sfida è portata, con argomenti e logiche assai discutibili, all’istituto della concertazione e, più in generale, a tutte le forme relazionali soft, intermedie, tese a promuovere la collaborazione più che a misurare i rapporti di forza.

La sintesi a me pare illuminante. Ne abbiamo parlato ad un seminario della Cgil Fp del Lazio il 14 aprile scorso . Il disegno di un’amministrazione trasparente, che sa pianificare e programmare, prendere impegni dinanzi ai cittadini, misurare i risultati raggiunti, e valorizzare su questa base l’impegno dei propri dipendenti, si scolora nel tran tran quotidiano. Tutti gli sforzi, tutte le energie, si concentrano sul nodo del potere, sul bastone del comando.

Credo che si debba reagire: non per “dovere di ruolo”, o per indignazione morale, e neppure per ragionamento “politico”, ma perché questa impostazione è figlia di un’analisi sbagliata dei mali dell’amministrazione pubblica, e indica una prospettiva illusoria, che produrrà altre macerie senza risolvere alcun problema.

Vorrei essere chiaro. Non penso affatto che la stagione della contrattualizzazione del lavoro pubblico, lungo il quindicennio 1993-2008, sia stata esente da difetti. Tutt’altro. Mi riferisco alle “code di paglia” a cui ho già fatto cenno. Ad esempio alla mancata realizzazione, in molte amministrazioni regionali e locali, di un vero sistema permanente di valutazione di tutti i dipendenti, pur reclamato dal CCNL del ’99. O alla banalizzazione dei sistemi di valutazione – quando c’erano! – con l’appiattimento generalizzato dei giudizi e la gestione degli istituti retributivi incentivanti come impropria leva per il recupero del potere d’acquisto dei salari. O alla gestione delle PEO, con tecniche e logiche antitetiche rispetto ai chiarissimi precetti di quel CCNL. E, per stare proprio al tema delle relazioni sindacali, al frequente “scivolamento” delle forme relazionali, per cui l’informazione si tramutava in concertazione, e la concertazione in una sostanziale contrattazione senza limiti di tempo e di contenuto, finendo per deresponsabilizzare quegli amministratori che non sapevano o non volevano decidere. Per questo mi è capitato di dire che sono dispiaciuto, ma non stupito, per il fatto che il legislatore abbia ritenuto di dover rimettere mano ad alcuni articoli cardine del sistema – l’articolo 5 e l’articolo 9 del d.lgs. 165 – per provare a rimettere ordine. Oppure abbia “preteso” di dare “forza legislativa” – con il titolo II e il titolo III del d.lgs. 150 (ma lo stesso vale per alcune disposizioni in materia disciplinare) – a principi già affermati dai contratti degli anni ’90, e rimasti per lo più sulla carta. E per questo non mi stupisco se amministratori locali aperti e responsabili, davvero lontani dalle sirene brunettiane, vogliono però provare a realizzare davvero un trasparente “ciclo della performance”.

Ma, come dicevo all’inizio, non mi pare particolarmente utile fermarsi alle recriminazioni. La domanda che oggi ci dobbiamo porre – e su cui possiamo guardare oltre la mesta parabola della riforma Brunetta - è se le amministrazioni pubbliche italiane possano “guarire” dai loro mali solo con un recupero del potere unilaterale, o se al contrario sia necessario più coinvolgimento, dei lavoratori e dei cittadini, maggiore condivisione di strategie e obiettivi, più forte spirito di squadra, anche per affrontare sfide severe e appuntamenti difficili.

Provo allora ad indicare qualche ipotesi di lavoro, lasciando per ultimo proprio il tema delle relazioni sindacali.

Parto dal ciclo della performance. La valutazione individuale (positiva o negativa) – spiega il decreto 150 - deve “pesare” davvero, oltre che per la distribuzione degli incentivi, per le chance di carriera e per l’attribuzione degli incarichi più gratificanti . Ecco una delle buone idee disseminate nella riforma. Se così non fosse – se l’esito della valutazione fosse solo l’accesso a qualche striminzito “premio di performance” – ci dovremmo domandare seriamente se il gioco vale la candela. Valutare è complicato, valutare è difficile, valutare implica tensioni e incomprensioni; vale la pena solo se si mettono in gioco le cose che contano di più nel percorso professionale di ciascun lavoratore. Appunto, la carriera e gli incarichi.

E’ anche una questione di trasparenza e di equità. Un buon incarico di collaudo, o di direzione lavori, può pesare, in termini retributivi, molto di più della retribuzione di risultato o del premio di performance. Se non ci fosse coerenza tra questi piani, il ciclo virtuoso della performance individuale potrebbe ridursi a un mero (e ingannevole) esercizio retorico.

Eppure, anche se il ciclo fosse davvero virtuoso – obiettivi, monitoraggio, misurazione, intelligente valutazione dei risultati e dei meriti professionali - c’è ancora qualcosa che stona, qualcosa che non va. La legge concentra ogni attenzione sulla performance individuale: lì dovrebbe finire la “quota prevalente” del trattamento accessorio (evidentemente “a danno” delle altre voci: gli incentivi di “performance organizzativa” e le parti della retribuzione legati alla posizione lavorativa). E “la quota prevalente della quota prevalente” dovrà andare a quanti si collocheranno nella fascia di merito più alta.

Dietro a questa impostazione ci sono due innegabili verità: ogni organizzazione ha bisogno dell’impegno individuale di tutti i suoi componenti, e troppo spesso l’appiattimento retributivo ha frustrato le migliori energie pur diffuse negli uffici pubblici. E tuttavia l’attenzione unilaterale e ossessiva per la performance individuale – per le sue regole, la sua valutazione, i suoi effetti sui sistemi premianti – apre il fianco a dubbi non meno fondati.
La riforma – dobbiamo ricordarlo – chiede espressamente di misurare e valutare, oltre che le performance individuali di dirigenti e dipendenti, anche le c.d. “performance organizzative”, riferite da un lato alle amministrazioni nel loro complesso – i Comuni, le Province, le Asl, le Camere di commercio – e dall’altro alle loro articolazioni interne (i dipartimenti, gli uffici, i servizi) .
Il suggerimento è importante proprio per chi ha a cuore il valore della p.a., e per questo è interessato a sottolineare le sue grandissime potenzialità, evidenziando le amministrazioni migliori, più efficaci, più efficienti, più attente ai bisogni dei cittadini e all’uso razionale delle risorse pubbliche. Non tutte le Asl hanno la piaga di interminabili liste d’attesa, non tutte le Province si disperdono in attività inutili, non tutti i Comuni dilapidano i denari dei cittadini in clientele e favori, non tutte le Regioni moltiplicano aziende ed enti di sottogoverno . Insomma, si deve amministrare bene perché è dimostrato che si può amministrare bene, facendo del “pubblico” un faro di eccellenza, e non il parente impresentabile del “privato”, per definizione moderno ed efficiente.
L’idea c’era. Ma il grande riformatore si è subito preoccupato di dire che le (scarsissime) risorse incentivanti dovevano comunque essere destinate in misura prevalente a premiare il “merito individuale”, piuttosto che il gioco di squadra. E le ambizioni di confrontabilità delle performance delle diverse amministrazioni si sono perse per strada: a che punto sta il lavoro che la CIVIT doveva realizzare per confrontare tra loro le amministrazioni statali? l’Anci ha fatto un enorme lavoro istruttorio per strutturare un ranking dei Comuni , ma dove è finito? quali conseguenze propone? e che sta accadendo su altri fronti (le Regioni, le Asl, le Province, …)? Un piccolo Comune – uno degli oltre cinquemila Comuni con meno di 5.000 abitanti – con chi si può confrontare? Possibile che l’unico metro di misurazione siano rimasti i tradizionali parametri contabili della Ragioneria generale dello Stato?
Non è uno dei tanti “ritardi”. Il problema sta proprio nel paradigma culturale. Chi ha voluto scommettere tutte le carte (o le carte “prevalenti”!) sulla performance individuale, ovviamente in un contesto fortemente selettivo, crede nel valore taumaturgico della competizione interna: l’amministrazione migliorerà le sue “performance” perché tutti i suoi dirigenti e dipendenti saranno impegnati allo spasimo per entrare nella cerchia dei migliori, nel club ristretto dove giungerà la “quota prevalente” degli incentivi. Io contro di te, per eccellere sulla mediocrità degli altri. Fino al parossismo del “bonus annuale delle eccellenze” : il migliore dei migliori! Inevitabile, a questo punto, mettere in secondo piano la “performance organizzativa”, dell’amministrazione nel suo complesso, o delle unità in cui si articola.
Proviamo allora a ragionare su una impostazione culturale di segno opposto: mettiamo al centro dell’innovazione proprio l’idea di squadra, il risultato collettivo a cui tendere insieme e a cui collegare significative risorse incentivanti. Non gli spiccioli, non ciò che resta dopo la “performance individuale”, ma il giusto compenso che spetta a quanti, con il proprio lavoro di gruppo, hanno consentito all’ufficio (e all’”amministrazione nel suo complesso”) di rispettare il patto stipulato con i cittadini.

Non è una partita facile: occorrono rigore, trasparenza e serietà, per fissare traguardi ambiziosi e misurare obiettivamente successi ed insuccessi, e per determinare la “soglia di esclusione”, per quanti non hanno potuto o voluto dare alcun apporto significativo al risultato raggiunto.

Ma è l’unico modo per valorizzare il gioco di squadra, la collaborazione reciproca, la buona organizzazione, e per costruire un circuito virtuoso tra le responsabilità della politica, quelle dei dirigenti e quelle di ciascun dipendente, comprese le figure professionali ausiliarie. Si vince o si perde insieme.

E’ la chiave di volta per mettere al centro di ogni amministrazione la necessità di un “piano industriale”, discusso e condiviso, su cui impegnare lavoro e risorse, e legare in modo convincente gli incentivi – i “premi” – al miglioramento quantitativo e qualitativo dei servizi resi ai cittadini.

Per questo è l’unico modo in cui è possibile tener fede a una delle tante promesse da marinaio del Ministro Brunetta: il coinvolgimento attivo dei cittadini , che sono interessati ai risultati concreti resi dalle amministrazioni e capacissimi di misurare le prestazioni collettive (più che il “merito” del singolo dipendente con il facile gioco delle “faccine” di emoticon !).

Ma soprattutto, un solido approccio alla performance organizzativa è la premessa indispensabile e la logica conseguenza di ogni modello di federalismo fiscale, inteso come autonomia di istituzioni omogenee per compiti e funzioni, chiamate ad ottimizzare la propria efficienza in rapporto a funzioni fondamentali, livelli essenziali delle prestazioni, fabbisogni e costi standard. Le amministrazioni territoriali, chiamate a sfide così impegnative, hanno bisogno di maggiore coesione, di maggiore “spirito di squadra”, di maggiore consapevolezza dei traguardi che debbono essere raggiunti insieme.

Non vorrei cadere in una estremizzazione pari e simmetrica rispetto a chi ha voluto puntare tutto sulla performance individuale: i dirigenti e i funzionari con grandi e specifiche responsabilità devono essere chiamati a rispondere della “responsabilità di risultato” che li impegna personalmente, e la valutazione individuale è parte di un circuito di corresponsabilità. Ma l’attenzione alla performance organizzativa serve ad investire sul “clima interno”, come risorsa essenziale per il recupero di efficienza dell’amministrazione. Tanto più, lo accennavamo prima, che il mondo del lavoro pubblico è atteso a prove davvero difficili.

Ancora non conosciamo i contenuti della “manovra da 40 miliardi”. Possiamo immaginarli, alla luce di qualche indiscrezione, ma soprattutto dei precedenti: da ultimo, il decreto 78 del 2010. Blocco dei contratti, delle retribuzioni, delle carriere, del turn over . Ancora una volta è possibile (probabile?) che la scure si abbatterà in modo casuale e indifferenziato su tutti i lavoratori pubblici, con il consueto corredo di argomentazioni demagogiche. I dipendenti pubblici sono i “garantiti”, che debbono e possono pagare i costi della crisi mentre tanti lavoratori privati perdono il posto; le retribuzioni pubbliche sono cresciute più della media; la pubblica amministrazione è la vera palla al piede, dove si nascondono gli sprechi e la spesa improduttiva ...

Non sta a me, soprattutto in questa sede, replicare a queste offensive banalità. Ma non c’è dubbio che la sfida – politica, sociale e culturale – è sul tavolo. Dovremmo allora afferrarla per le corna. Accenno a due soli esempi. Ci sono squilibri di regole, diritti e retribuzioni tra lavoratori che fanno cose simili in contesti contigui, ad esempio nei servizi pubblici locali esternalizzati? Non è forse un nodo da affrontare con coraggio? E ancora, se è falso che in Italia ci sono troppi dipendenti pubblici, non è forse vero che spesso sono mal distribuiti, tra diverse amministrazioni, sul territorio nazionale (o regionale), dentro le singole amministrazioni, tra i diversi profili? E non è necessario, allora, pensare alle regole per operazioni anche importanti di mobilità , e a piani di formazione per riconvertire profili e culture professionali?

Cito, solo “per titoli”, problemi così scottanti, per tornare sempre sullo stesso punto. Se l’orizzonte è questo, così aspro e difficile, è davvero illusorio affrontarlo con l’esercizio del comando unilaterale e con la competizione interna, tutti contro tutti. Serve l’esatto contrario: più coinvolgimento, più condivisione, più consapevolezza.

Arrivo così all’ultimo tema che volevo trattare. Come già detto, il progetto di relazioni sindacali che si delinea tra il decreto (vigente), il decreto correttivo, l’ipotesi di accordo quadro, le circolari del Dipartimento e le numerose esternazioni del Ministro ha un’ambizione: polarizzarne e semplificarne il quadro, indicando da un lato le materie, gli spazi riservati alla contrattazione (peraltro condizionati e “minacciati” dalle due norme che consentono alle amministrazioni di disporre unilateralmente su quelle stesse materie), e dall’altro l’ambito “riconquistato” dal potere datoriale unilaterale, salva la informazione ai sindacati. Si dimentica, o si vuole cancellare, lo spazio intermedio, finora riferito soprattutto all’istituto della concertazione.

Per fortuna, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E così gli intendimenti di brutale semplificazione si sono infranti dinanzi al giudice del lavoro, sia per i dubbi che ancora persistono sull’ultra vigenza dei contratti stipulati prima della riforma, sia per un vistoso problema normativo. Il decreto 150, che pure ha innovato quasi la metà degli articoli del d.lgs. 165/2001, non ha toccato l’art.6, che chiede alle amministrazioni di “consultare” le organizzazioni sindacali prima di adottare decisioni sulla “macro-organizzazione” – regolamenti degli uffici, sistemi di valutazione, modelli organizzativi generali – e sulle dotazioni organiche (comprensive, probabilmente, dei piani assunzionali). La norma sta lì, è legge, e deve essere rispettata, ed è a tutti noto che la concertazione è un istituto di derivazione contrattuale, che ha dato forma e regole proprio al principio della “consultazione” (come del resto suggerisce il successivo art.9, anche nella formulazione “riformata” con il d.lgs. 150). Ma, di nuovo, non voglio suggerire una ragionamento solo formale; è proprio la sostanza che ci deve stare a cuore. La concertazione, sembra dire quell’immutato articolo di legge, è lo strumento necessario per gestire decisioni difficili. Vale per i progetti di riorganizzazione, vale per la mobilità, vale per i sistemi di valutazione. Perché è cosa nota a tutti gli studiosi di scienze organizzative che nessun sistema di valutazione e nessun modello di premialità può avere successo se non è compreso da tutti gli attori in campo, condiviso nelle sue finalità, nei metodi e nei criteri .

Ancora una volta, la cosa più urgente è capovolgere lo spirito con cui il Ministro ha voluto “condire” e illuminare tutto il disegno riformatore: una riforma “contro”, sbattuta in faccia ai lavoratori pubblici, vilipesi e denigrati ogni giorno di più, e per questo destinata al fallimento. Dobbiamo invece provare a ragionare in modo opposto: riformare ancora di più, con più coraggio e più determinazione – e molte altre cose potremmo dire, dalle forme del reclutamento alle carriere, dalla responsabilità dirigenziale ai controlli di qualità – ma scommettendo sul coinvolgimento, la responsabilità condivisa, l’orgoglio di chi sa di essere al servizio dei cittadini.

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